CARMAGNOLA – Da una costola di Carminius scaturisce una nuova operazione che porta a due arresti e ad un maxi sequestro
CARMAGNOLA – Da una costola di «Carminius» è nata un’altra operazione contro la ‘ndrangheta gestita dalla guardia di finanza di Torino e denominata «Cavallo di Troia», la quale attività investigativa è arrivata al suo culmine venerdì mattina, quando i militari hanno arrestato due persone e sequestrato beni per 2,5 milioni di euro nelle provincie di Torino, Asti e Reggio Calabria. Altre sei persone (una delle quali al momento risulta irreperibile) sono indagate a piede libero. Ma che siano arrestati o semplicemente nel mirino degli inquirenti tutti i personaggi coinvolti sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di reati fiscali e fallimentari aggravati dall’agevolazione mafiosa. I soggetti fermati inoltre devono rispondere anche di concorso in associazione mafiosa, cosa che appare quasi scontata visto che l’intera indagine, portata avanti dal nucleo di polizia economico-finanziaria della fiamme gialle torinesi, ha di fatto consentito di individuare tre società operanti nel settore edilizio, ritenute nell’orbita di una famiglia legata alla malavita calabrese nonché, purtroppo, radicata nel territorio di Carmagnola. Ecco perché questa nuova operazione è profondamente legata a Carminius, quella che due anni fa portò a diversi arresti e al processo che proprio nei giorni scorsi è approdato al momento delle richieste da parte del pubblico ministero. Ma tornando agli esiti attuali delle investigazioni va detto che gli indagati, secondo i finanzieri, avrebbero gestito le imprese individuate dall’inchiesta anche tramite l’utilizzo di prestanome, i quali gli sarebbero «pervenuti» proprio in forza del presunto appoggio fornito loro dalla cosca carmagnolese, la quale sarebbe stata anche in grado di garantire importanti commesse per la realizzazione e la «protezione» nel caso si fossero presentate delle difficoltà apparentemente insormontabili. Il tutto abbattendo fittiziamente i debiti tributari e previdenziali nell’ambito di una sorta di «doping fiscale», come definito dagli stessi uomini della GdF, risultando così avvantaggiati rispetto alla concorrenza delle società operanti nei medesimi settori.
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